LIBERO E SELVATICO

SELVATICO

Parlare di selvatico in un mondo addomesticato equivale a fare un passo avanti rispetto alle abitudini e agli schemi di pensiero in cui siamo soliti accomodarci, assuefatti a vivere in un mondo fatto di contenitori stagni e quasi completamente non comunicanti. Tra un contenitore stagno e l’altro, nastri d’asfalto, parchi gestiti, assenza di pensiero; movimenti di automi ciechi, con occhi incapaci di vedere.

Non c’è selvatico, in una città, ma spesso non c’è selvatico neppure nelle campagne, divenute ormai ambiti addomesticati sui quali l’uomo, intervenendo continuamente su ciò che lo circonda, ha imposto schemi pluriripetuti di dominio e contraffazione.

Per trovare una parvenza di naturalità bisogna spostarsi dall’ambiente antropocentrico in cui viviamo, andare lontano dai centri abitati, anche dai più piccoli, spingersi a latitudini diverse; oppure esiste un’altra alternativa, più remota, ma importante: riuscire a spiare tra le fessure, negli interstizi del mondo moderno, nei quali si insinua quella naturalità che l’uomo tende a escludere, dominare, trasformare a suo piacimento. Ma è una naturalità prepotente, che approfitta di ogni singolo momento di distrazione per riappropriarsi di spazi abbandonati o dimenticati, anche soltanto per tempi brevi.

Proprio questo è successo al Parco Michelotti di Torino. Lasciato a se stesso per un po’, ha ripreso a respirare autonomamente. Gli animali autoctoni e migranti hanno ricominciato a guadagnarsi spazi di vita: gli alberi – che l’amministrazione comunale ha smesso di gestire – sono cresciuti spontaneamente, ingrandendosi e sviluppando, man mano, la forma naturale che li caratterizza, senza gli schemi imposti dalla gestione del verde cittadino. E non solo… essenze erbacee e arbustive, più conosciute e più comuni, hanno ricominciato a proliferare, crescendo e moltiplicandosi con la forza dei semi nascosti nelle pieghe del sottosuolo, che possono restare dormienti per anni, fino a quando diventa possibile riguadagnare uno spazio di libertà. Nel Parco Michelotti, che di questo processo di rinselvatichimento è un simbolo, tale libertà è esplosa e si è accresciuta, le differenze si sono moltiplicate, l’area verde ha iniziato a respirare, da sola, senza l’ausilio di nessuno. Persino le gabbie sono diventate spazi da rioccupare, che la natura, poco a poco, sta abbracciando, pronta a distruggerle o a ridestinarle a usi molto diversi da quello per cui sono state pensate: imprigionare il vivente.

Il selvatico rappresenta una categoria autosufficiente e come tale è vissuta da tutti gli esseri viventi, tranne che dall’essere umano, che ha invece l’abitudine di misurare ogni cosa attraverso categorie che lo comprendono o che passano attraverso i suoi occhi.

Il riconoscimento del selvatico scardina questo punto di vista.

Per riacquisire una posizione paritaria rispetto a quella degli altri esseri viventi, è necessario abbattere le nostre gabbie mentali, esercitarci a rivoluzionare usanze e pensieri, distogliere lo sguardo dalle convenzioni alle quali siamo stati abituati, quelle che pongono l’uomo al centro di tutto, come il fulcro della vita e della realtà, addomesticati noi stessi dalla società, dal sistema, incapaci di vedere e di essere liberi e selvatici. Ogni giorno, volutamente – anche se forse non consapevolmente – rinunciamo infatti alla nostra libertà di scoprire e incuriosirci, appagati e rassicurati dall’idea di mondo che ci hanno insegnato come reale e immutabile, confortevolmente accomodati tra le abitudini interiorizzate: la casa, la famiglia e tutte le relazioni, il lavoro, il nostro modo di determinarci e di definirci all’interno di una realtà che crediamo di aver scelto e che pensiamo di stare creando, ma fagocitati da essa, semplici ingranaggi di un meccanismo su cui non agiamo, incapaci anche solo di vederlo nel suo insieme

Contro ogni gabbia

liber tutt di entrare e di uscire

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GABBIE

Nella primavera del 2015 un nuovo problema si è presentato a Torino: la privatizzazione del Parco Michelotti.

Vari gruppi e associazioni se ne interessano, ma alcune loro caratteristiche e questioni di identità politica ci hanno spinto ad allontanarcene:
per noi fondamentale, per condividere anche un singolo obiettivo, è il dichiararsi antifascisti.

Può sembrare ovvio per persone che tentano di opporsi a un progetto di sfruttamento, ma non lo è.
L’essere e il dichiararsi antifascisti è certamente la prima affinità che abbiamo riscontrato fra di noi.
Nel conoscerci, nell’approfondire discorsi e nel cercare metodi per contrastare la privatizzazione del Parco, ci siamo riconosciuti come antispecisti, differenziandoci ulteriormente rispetto a gruppi animalisti e ambientalisti.
L’antispecismo, per noi, non è solo un modo di pensare non antropocentrico, né solo il riconoscere diritti agli altri animali.
Le questioni fondamentali da affrontare e le lotte che cerchiamo di intraprendere sono contro il predominio, in una visione più completa e includente, in cui non ci siano  animali uccisi, maltrattati, schiavizzati. Gli animali tutti.

Ciò a cui aspiriamo è un mondo dove ogni individuo possa esprimere se stesso, la sua individualità e la sua autodeterminazione, decostruendo un sistema di categorie e classificazioni, nelle quali doversi inserire o riconoscere e a causa delle quali essere discriminati e sfruttati.

Finché il motore di tutte le azioni umane sarà il profitto non potrà esserci liberazione, né animale, né umana, né della terra.
Finché ci sarà qualcuno che potrà esercitare un potere, soggiogando altri individui con meno possibilità, non ci potrà essere liberazione.
Finché non sarà riconosciuto il valore di ogni essere vivente, indipendentemente da quanto è in grado di produrre, di consumare, di procreare, di creare ricchezza, non ci sarà liberazione.

La liberazione sarà possibile se penseremo ed agiremo con la consapevolezza che non esiste una soluzione univoca e semplicisticamente basata su un cambiamento di stile di vita.
L’antispecismo cambia i rapporti, con l’attenzione a non commettere l’errore di elaborare un altro pensiero forte, replicando così un nuovo sistema di dominio, dove chi non si riconosce, o non ha la forza di raccontare la propria diversità, subisce sopraffazioni.

Crediamo che nella  lotta per la liberazione sessuale, contro la psichiatria, contro le prigioni, contro ogni forma di gabbia e di reclusione, lo scopo non sia quello di ottenere un diritto, di chiedere un riconoscimento, di farsi accettare nella propria diversità, ma quello di scardinare un sistema che categorizza, che suddivide, che decide se permettere o meno di vivere secondo la propria natura e secondo i propri desideri e aspirazioni.

Il Michelotti è un simbolo:
un progetto, questo di Zoom e comune di Torino, in cui potere e profitto sono al tempo stesso promotori e scopi dell’iniziativa. Un progetto che prefigura la messa in pratica di gran parte di ciò che reputiamo indispensabile combattere
* la privatizzazione di un luogo pubblico, che dovrebbe essere accessibile e fruibile;
* la reclusione e schiavizzazione di animali che non potranno mai più vivere liberi;
* l’eliminazione di un luogo semi-selvatico dove piante e animali di diversi tipi sono riusciti a riappropriarsi di un minimo spazio all’interno di un territorio massicciamente antropizzato;
* la creazione di profitto basato sullo sfruttamento;
* la legittimazione della cultura del dominio, dove l’essere umano, soprattutto se ha i soldi per farlo, può utilizzare qualunque altro essere vivente e qualunque spazio naturale a suo piacimento.

Contro questa ennesima forma di reclusione e di sopraffazione e contro la sua rappresentazione mistificata, rifiutiamo l’imbroglio che si estende, ormai senza confini, al vivente tutto; un imbroglio indorato di pseudo-sostenibilità, così da ripulire l’apparenza di una realtà fatta di ogni sopruso.

Contro ogni gabbia

liber tutt di entrare e di uscire