13 dicembre 2015 Torino – IV biciclettata per il Michelotti Libero!

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Scendiamo in strada, ancora, per dichiarare la nostra rabbia verso l’ipotesi sempre più reale che anche questo angolo di Torino, un parco per giunta, venga privatizzato e trasformato in un nuovo zoo. Non lo chiameremo zoo però, perché qualcuno potrebbe risentirsi: «non vogliono fare uno zoo! gli zoo sono fuori moda». Lo chiameremo allora con il suo vero nome: luogo di sfruttamento. Zoo: fattoria urbana: bioparco.

Scendiamo in strada inforcando le nostre bici, da sempre simbolo di allegra libertà e ecologica visione del mondo. Le biciclette, svincolate dal petrolio e dal denaro. Vive dei muscoli di chi le porta.

In una domenica prenatalizia, scegliamo di andare in strada, non per fare acquisti, ma perché la strada è la nostra. Sfidiamo il freddo pungente di Torino e montiamo in sella per raccontare con i nostri corpi su due ruote il mondo che vogliamo, senza luoghi di prigionia. Per nessuno. Per dichiarare che l’addomesticamento uccide, corpo e mente, di umani e non umani.

Domenica 13 dicembre alle ore 13,30 appuntamento davanti ai cancelli di quello che è stato per 30 anni uno zoo e che vogliamo non lo diventi mai più.

Parco Michelotti libero per tutte e tutti.
LIBERI DI ENTRARE e DI USCIRE.

L’urlo

scary_black_gibbon_monkey_vicious_fanged_teeth_poster-rdcfc616f42f1442b81a605939e068b89_w2q_8byvr_324Sabato 5 settembre 2015 c’è stata una biciclettata NoZoo. Anche fossimo stati 10.000 sarebbe stato troppo poco, ma 20 assolutamente non è numero degno. Il “defilè”, anche stavolta, è stato numeroso. Comunque così è: pochi è sempre meglio che soli.

L’idea era far sentire degli spot amplificati, ma la fortuna gioca volentieri contro le opposizioni: il lettore mp3 ha infatti subito smesso di funzionare. Così a noi, pochi ed ammutoliti, restavano solo fischietti, campanelli, trombette. E la voce. Così a me, pedalando in mezzo alla gente del sabato pomeriggio – sai quella tutta “bella”, tutta uguale, quella che invece di tentare se stessa non fa altro che cercare di assomigliare a qualcuno – è venuto di provare un urlo. Un urlo qualsiasi, giusto per far girare quei crani svuotati, quei cloni in posa, verso di noi. Ha funzionato. Dopo qualche timido tentativo l’urlo è diventato indipendente, ha cominciato ad andare per conto suo, ha virato sul scimmiesco.

Giuro: non ho mai urlato così forte, mai così animale, tantomeno in pubblico. E poi, alla mia età! Mentre maldestramente affinavo il grido, la memoria, da sola, faceva marcia indietro di 50 anni: ero lì, bambino, visitavo lo zoo accompagnato da mio padre. Lui, ricordo, due o tre volte mi ci ha portato. Così, perché all’epoca il week-end non esisteva, era solo “sabato e domenica”, ed in quei giorni non c’erano molti altri posti in cui portare i figli. Allora le possibilità erano proletarie, i figli giocavano da soli, come gli orsi, e i padri non erano ancora gli odierni drogati
dai sensi di colpa e della riscossa figliale ad ogni costo, psicoterapie universali che muovono il PIL (altrui) trasferendo intere famiglie verso campi da sci, Gardaland, Disneyland, ludoteche, Zoom, acquari ed altre carceri animali.

Dello zoo di Torino ricordo l’immane tristezza degli occhi del gorilla (mio padre, benché macellaio fino ai vent’anni, ne fu molto colpito e me la fece notare) che “viveva” solo, inerte, perennemente seduto su un’altalena fatta col copertone di un camion. Ed un gibbone, una scimmia di piccola taglia, urlatrice ed iperlongilinea che vive saltando tra gli alberi. Uno splendido acrobata, di quelli che se caso mai andassero alle olimpiadi si porterebbero via tutto il
medagliere, anche lasciando a casa un braccio. Ricordo quella disgraziata scimmia incazzatissima, la ricordo avventarsi contro i visitatori e tentare di afferrarli sporgendo le braccia dalle sbarre. E la ricordo sfogare i suoi vani tentativi di liberarsi correndo in orizzontale sul perimetro della gabbia, a tre metri di altezza, ad una velocità centrifuga tale da non riuscire a vedere in che modo le sue quattro mani riuscissero ad afferrare e rilasciare gli appigli. E ricordo il suo urlo, fortissimo e disperato.

Sabato pomeriggio pedalavo adagio, osservando “l’umanità” di clone e cloni passeggiare inerte nel Truman Show del centro, e pensavo al gibbone, alla sua miserabile vita detenuta, finita chissà come, sicuramente male. Così ho trovato il coraggio di urlare sempre più forte. Per chiedergli scusa: per allora, per essere andato a vederlo, per aver contribuito al motivo per cui era prigioniero lì.
Così, piano piano, sono diventato solo un tramite: non ero più io ad urlare, era lui.
WG