Michelotti libero, stavolta per davvero!

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Il  20 e il 21 novembre 2015 il parco Michelotti è stato liberato per una TAZ di due giorni grazie a compagn* di case occupate e solidali arrivati da varie città e da varie realtà in un’ottica di scambio e condivisione con l’intento di vivere un luogo e aprirlo a tutte e tutti.

Una Temporary Autonomous Zone fatta di musica, concerti, writings, distro, serigrafia, cibo e pizze veg cotte in un forno autoprodotto, in cui sono stati fatti approfondimenti sulle ultime esercitazioni NATO Trident Juncture, con un dibattito antimilitarista a seguire e sull’appena concluso Expo, attraverso una lettura performata di “Gli spettacolari sensi di expo” del collettivo “Liberati da Expo”, con un riadattamento scenico ad hoc raccontando così anche quanto la giunta comunale preveda come squallido destino del parco.

Ci è sembrato importante riproporre Expo, anche a battenti chiusi, perché l’immaginario che ha creato continua ad esser riflesso ovunque, in ogni mistificazione della realtà, nel green-washing quotidiano e quindi anche nel cercare di rielaborare e far percepire le gabbie come “più felici”, nel tentare anche di venderci biglietti per spazi che già appartengono ad animali umani e non, nella loro libertà.

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Son passate più di mille persone in due giorni, e tutto il ricavato di cibo e bevande è stato destinato a benefit per Marina Cugnaschi e per i 4 compagni ancora in carcere dopo i recenti arresti per il primo maggio Noexpo.
Abbiamo condiviso spazi e tempo per rivendicare la voglia di contrastare logiche di speculazione, riappropriandoci tutt* di uno splendido parco pubblico,  un parco quindi di tutt*, destinato, invece, a trent’anni di privatizzazione e sfruttamento.

E’ stato raccontato di dominio, di liberazione animale e di cosa fosse quel parco un tempo e quali siano i progetti del comune di Torino a braccetto con Zoom s.p.a., il solo candidato presentatosi al bando di gara per l’assegnazione del parco.
In molt* non conoscevano la storia e speriamo di aver contribuito a dare un motivo in più ad una lotta di liberazione.
Una lotta che per noi vede la liberazione totale di ogni vivente come obiettivo.

Dal venerdì alla domenica quel parco non ha più avuto un cancello, non ci sono più stati lucchetti, era di tutt*, come dovrebbe essere. Sempre. ????????????? Persone di ogni età sono state felici di trovare il parco APERTO e poter camminare su un tappeto meraviglioso di foglie, turbato soltanto dalla tristezza di quelle che furono gabbie e che non devono tornare ad esserlo; né lì, né altrove.
Per nessun*.

 

L’urlo

scary_black_gibbon_monkey_vicious_fanged_teeth_poster-rdcfc616f42f1442b81a605939e068b89_w2q_8byvr_324Sabato 5 settembre 2015 c’è stata una biciclettata NoZoo. Anche fossimo stati 10.000 sarebbe stato troppo poco, ma 20 assolutamente non è numero degno. Il “defilè”, anche stavolta, è stato numeroso. Comunque così è: pochi è sempre meglio che soli.

L’idea era far sentire degli spot amplificati, ma la fortuna gioca volentieri contro le opposizioni: il lettore mp3 ha infatti subito smesso di funzionare. Così a noi, pochi ed ammutoliti, restavano solo fischietti, campanelli, trombette. E la voce. Così a me, pedalando in mezzo alla gente del sabato pomeriggio – sai quella tutta “bella”, tutta uguale, quella che invece di tentare se stessa non fa altro che cercare di assomigliare a qualcuno – è venuto di provare un urlo. Un urlo qualsiasi, giusto per far girare quei crani svuotati, quei cloni in posa, verso di noi. Ha funzionato. Dopo qualche timido tentativo l’urlo è diventato indipendente, ha cominciato ad andare per conto suo, ha virato sul scimmiesco.

Giuro: non ho mai urlato così forte, mai così animale, tantomeno in pubblico. E poi, alla mia età! Mentre maldestramente affinavo il grido, la memoria, da sola, faceva marcia indietro di 50 anni: ero lì, bambino, visitavo lo zoo accompagnato da mio padre. Lui, ricordo, due o tre volte mi ci ha portato. Così, perché all’epoca il week-end non esisteva, era solo “sabato e domenica”, ed in quei giorni non c’erano molti altri posti in cui portare i figli. Allora le possibilità erano proletarie, i figli giocavano da soli, come gli orsi, e i padri non erano ancora gli odierni drogati
dai sensi di colpa e della riscossa figliale ad ogni costo, psicoterapie universali che muovono il PIL (altrui) trasferendo intere famiglie verso campi da sci, Gardaland, Disneyland, ludoteche, Zoom, acquari ed altre carceri animali.

Dello zoo di Torino ricordo l’immane tristezza degli occhi del gorilla (mio padre, benché macellaio fino ai vent’anni, ne fu molto colpito e me la fece notare) che “viveva” solo, inerte, perennemente seduto su un’altalena fatta col copertone di un camion. Ed un gibbone, una scimmia di piccola taglia, urlatrice ed iperlongilinea che vive saltando tra gli alberi. Uno splendido acrobata, di quelli che se caso mai andassero alle olimpiadi si porterebbero via tutto il
medagliere, anche lasciando a casa un braccio. Ricordo quella disgraziata scimmia incazzatissima, la ricordo avventarsi contro i visitatori e tentare di afferrarli sporgendo le braccia dalle sbarre. E la ricordo sfogare i suoi vani tentativi di liberarsi correndo in orizzontale sul perimetro della gabbia, a tre metri di altezza, ad una velocità centrifuga tale da non riuscire a vedere in che modo le sue quattro mani riuscissero ad afferrare e rilasciare gli appigli. E ricordo il suo urlo, fortissimo e disperato.

Sabato pomeriggio pedalavo adagio, osservando “l’umanità” di clone e cloni passeggiare inerte nel Truman Show del centro, e pensavo al gibbone, alla sua miserabile vita detenuta, finita chissà come, sicuramente male. Così ho trovato il coraggio di urlare sempre più forte. Per chiedergli scusa: per allora, per essere andato a vederlo, per aver contribuito al motivo per cui era prigioniero lì.
Così, piano piano, sono diventato solo un tramite: non ero più io ad urlare, era lui.
WG

Breve storia di due follie

nietzsche-hugging-a-horseTorino, Piazza Carlo Alberto, 3 gennaio 1889: un uomo, di fronte allo strazio di un cavallo frustato furiosamente da un vetturino, di fronte al suo sguardo implorante e disorientato, lo abbraccia, piange, diventa folle.

Torino, Piazza Palazzo di Città, 20 gennaio 2015: un burocrate, insensibile allo strazio di una città frustata dalla crisi e dall’abbandono, insensibile al suo sentire disorientato e disperante, abbraccia, sorridendo soddisfatto, una proposta folle.

In mezzo, tra le altre cose – l’immigrazione interna e transnazionale, le lotte operaie, l’outsourcing della FIAT –, l’apertura, il 20 ottobre 1955, e la chiusura, il 31 marzo 1987, di uno zoo. Le sue tracce nelle immagini sfarfallanti dei primi video amatoriali: una giraffa che allunga il collo e un elefante che tende la proboscide per prendere qualcosa da mangiare, degli orsi in bilico su del ghiaccio posticcio immerso in una specie di pozzanghera, delle scimmie che corrono su e giù da finti alberi di corda e d’acciaio, dei felini annoiati e immobili che si alzano solo per girare intorno a se stessi, avanti indietro, come la pantera di Rilke. Ma sempre con grazia, con una delicatezza che sbalordisce, con la capacità di perdonare l’imperdonabile. E sbarre ovunque e ovunque cemento.

E poi al posto dello zoo un bioparco. Un bel nome per dire la stessa cosa, lo stesso degrado del vivente a oggetto di oscena pornografia, la stessa noia, la stessa rabbia, la stessa grazia, delicatezza e capacità di perdono degli uni, la stessa protervia e arroganza degli altri animali. Lo stesso panottico, solo più fintamente gentile, lento, felice. In realtà, la stessa memoria ferita, in futuro; certo, questa volta da immagini ad alta risoluzione, in 3D, con colori precisi, da diffondersi con orgoglio sui social network. Le sbarre, però, più lontane, più difficili da scorgere, anche con gli zoom più potenti, più infide quindi; meno criticabili, se non da fanatici ed estremisti della libertà, perché rese invisibili o quasi. E, ovviamente, niente cemento questa volta! Erba, magari di plastica, ma erba comunque, Signori e Signore, bambine e bambini! Venghino, venghino!

Il burocrate sono in tanti e non han nome: son nati sani, mettono sulle zolle le mani e sperano di educare folle di bambini al pianto della reclusione, insegnando loro a pregare gli idoli della forza, dello sfruttamento, del dominio.

L’uomo del cavallo, invece, ha firmato il suo dolore, con un gesto estremo e con tanti nomi, tra cui anche quello di Friedrich Nietzsche. È nato folle, ha aperto le zolle, ha scatenato tempesta. E piange sempre la sera. Forse è la sua preghiera.

 

Oltre la specie