ACCADE AL PARCO MICHELOTTI

 

NO PRIGIONI  NO ZOO  NO ZOOM – RIFLESSIONI A GOGO

RIFLESSIONE 1

 Il 15 dicembre 2017, dopo un anno e mezzo dall’assegnazione dell’area dell’ex Giardino Zoologico alla società ZOOM di Cumiana – vincitrice del bando lanciato dalla giunta PD a cui ha fatto seguito la giunta pentastellata che, nonostante le promesse fatte in campagna elettorale,
non ha mai rinunciato al progetto, possiamo mettere una bella croce in fondo allo slogan: NO ZOOM.

Gianluigi Casetta (fondatore e CEO di ZOOM) fa un passo indietro portando con sé la rinuncia alla realizzazione di un nuovo zoo.

Ma lo spettro delle prigioni e degli zoo rimane.
Già, perché questa senz’altro bella notizia, che ci libera dall’incubo di uno zoo nel centro di Torino, dall’incubo di vedere l’arrivo di camion stipati di animali e la commercializzazione della vita in nome del profitto, ci pone davanti al fatto inquietante che la decisione non  è frutto di un progetto politico verso la liberazione del parco da sfruttamento e lucro, non è un atto politico in favore di una libertà che vuole il parco di tutte e tutti, non è una presa di coscienza sulla drammaticità di una nuova privatizzazione, non è assunzione dell’idea che la biodiversità esiste già in un angolo pulsante di vita spontanea.
Niente di tutto ciò. Solo un bilancio in rosso.

Le prigioni e gli zoo possono sempre risorgere dalla cenere di un progetto fallito, farcite di belle parole e buoni numeri da vendere come
investimento per la città, sempre se garantiscono guadagno ed una adeguata immagine alle promesse fatte.

Il Parco Michelotti, intanto è li. Sotto la coltre di ghiaccio e foglie in questo inverno congelato. Mentre le luci degli spettacoli partitici
compaiono intermittenti sui giornali, nelle bocche gonfie e tra le carte firmate, è li. Sotto quella coltre si prepara a compiersi il vero
spettacolo del ciclo biologico, tra le casette e le gabbie vuote trovano rifugio persone, animali e piante che hanno realmente bisogno di dimora per sopravvivere, scansati dalla dura ricerca di spazi abitabili. E’ li, dietro le mura, oltre quel buco che lo divide dal centro di Torino e che, attraversandolo, proietta immediatamente in una nuova possibilità di esistere, di stare al mondo, di reinventarsi all’improvviso,
un’opportunità per tutti di solidarizzare, di  camminare tra improvvisi germogli di piante che nessuno ha mai piantato.

RIFLESSIONE 2

I tanti mesi di assemblee, cortei, volantini, graffiti, striscioni, manifestazioni varie, voluti e partecipati da tanti e diversi, hanno d’altro canto contribuito a porre attenzione sul contenuto oppressivo di questo progetto (animali in gabbia per un pigro divertimento a pagamento) e a creare la possibilità di una opinione ed un pensiero differenti:
spazi in cui entrare, stare ed uscire senza permessi e senza biglietto pagato, incontri con pezzi di vita inattesa e fuori dal nostro ordinario,
opportunità per tutti di decidere liberamente ed individualmente se essere o non essere in un pezzo pubblico della città, di partecipare o
non partecipare alla vita e alle necessità di questo luogo

La lotta politica per il parco michelotti libero è stata sin da subito la reazione ad una decisione di coercizione da parte del comune di
torino (il progetto dello zoo), ma anche un luogo simbolico in cui esercitare e sperimentare pratiche di autogestione e di pensiero libertario

Ora che lo zoo non si farà, il primo e concreto motivo di questa lotta decade, ma resta la necessità di continuare a desiderare e lottare perché quel posto e molti altri siano liberi, autogestiti e per tutti

 

Ancora e soprattutto ora: MICHELOTTI LIBERO
TUTTE E TUTTI LIBERI DI ENTRARE E DI USCIRE

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ALTRI DIVIETI AL PARCO PUBBLICO MICHELOTTI 

Non molte settimane fa, durante l’estate appena trascorsa, l’attuale giunta del comune di Torino ha deliberato per una serie di procedure che riguardano specificatamente l’area recintata dell’ex zoo Michelotti e il tratto di lungo Po subito sottostante.

 

Queste procedure sono raccontate come necessarie a soddisfare una urgenza di messa in sicurezza della zona, che viene detta abbandonata e allo stesso tempo nascondiglio di una umanità che viene descritta come degradata o pericolosa.

Tutto il parco, bellissimo e selvatico,  viene raccontato come fatiscente e, di contro, l’atteso intervento della società ZOOM come una necessaria azione di risanamento.

Queste operazioni  (che pare abbiano scadenza entro 4 mesi)  prevedono il distacco della corrente elettrica e la chiusura dell’acqua alle fontane, la diffida a valicare il perimetro della struttura pubblica e al percorrere,  durante le ore buie,  il tratto di lungo Po sottostante.

Il  provvedimento è arrivato dopo più di una operazione di polizia, in cui sono state identificate e sgomberate persone che avevano scelto di abitare all’interno del parco, nelle vecchie gabbie e negli edifici dell’ex zoo.

Le sanzioni per coloro che non rispettano l’ordinanza, oltre a quelle rese  possibili dal daspo urbano (Minniti Gentiloni, inverno 2017), tra le quali l’obbligo di allontanamento da quel  territorio in cui le regole sono state violate, sono anche di tipo penale.

Ancora una volta il sistema ha la necessità di mantenere l’ordine, individuare, catalogare e, a suo indiscutibile giudizio, reprimere le forme di iniziativa individuale di sussistenza che non rientrino entro regole e schemi precisi e controllati.

Un sistema per cui abitare in un parco non può essere una possibilità.

Riutilizzare una struttura abbandonata, come una gabbia, una vecchia fabbrica, qualunque edificio dismesso, per la propria sussistenza non interessa ai costruttori di questa economia e ai difensori della legge, dunque non è lecito.

Il selvatico vivente all’interno del Michelotti non ha valore, ma anzi la natura, riappropriatasi degli spazi di repressione e contenimento degli animali, è un problema di ordine pubblico e una possibilità in cui cercare consensi e voti, senza mai diventare contenuto politico da discutere.

 

Aspettando che le azioni concordate dal comune di Torino con la società ZOOM per il parco pubblico Michelotti siano messe in atto, le persone che vi trovano rifugio vengono scacciate, senza alcuna alternativa e senza una ragione, ma in virtù di una pretesa di sicurezza di qualcun altro, che frattanto passa la vita comodamente altrove.

Così come lo stato, con la creazione dei confini, è responsabile delle sofferenze di tutti coloro che nella capacità di spostarsi da un luogo ad un altro realizzano l’unica possibilità di sussistenza, allo stesso modo la proprietà privata è il principale motivo di sofferenza per l’umanità.

Confini, recinti, mura ed eserciti sono i baluardi dell’ingiustizia.

Ridefinire i punti di vista delle politiche è la priorità di un movimento rivoluzionario.

Non riformare, bensì sostituire questa società è l’obiettivo che dovremmo essere in grado di immaginare.

michelottilibero
tutti liberi di entrare, di stare e di uscire

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NO AL BIOPARCO PRESSO L’EX ZOO MICHELOTTI
Organizzazioni come zoo, bioparchi e fattorie didattiche utilizzano una comunicazione mistificatoria, impiegano un linguaggio fuorviante allo scopo di confondere la comprensione di ciò che realmente sono e di cosa in realtà realizzano: sfruttamento e lucro.

Vogliamo dire chiaramente che:

Un bioparco NON “educa le generazioni future al rispetto dell’ambiente e delle creature che lo abitano” (cfr *)
Un bioparco che segrega la vita in spazi limitati, annulla la complessità vera di un ambiente naturale, educa al fascismo e all’antropocentrismo. Predispone con leggerezza allo sfruttare ed essere sfruttat*.

I parchi zoologici immersivi più evoluti NON “ricreano habitat fedeli alle esigenze delle singole specie” (cfr *) perché in natura gli animali fanno parte di un ecosistema complesso creato su esigenze etologiche che è inimmaginabile per noi ricreare.
In natura gli animali scelgono con chi accoppiarsi, scelgono con chi giocare, lottare, dove nutrirsi, dove nascondersi, dove morire.
I parchi zoologici sono invece realtà posticce e virtuali, che educano al distacco dalla realtà, abituano al farne a meno.

Nei bioparchi NON “si comprende l’importanza della biodiversità” e NON “si crea la cultura che garantisce la biodiversità”(cfr *), perché in questo ambiente artificiale gli animali sono in una cattività che uccide le forme di vita selvatica, si sceglie invece per loro quando nascere, cosa mangiare, come vivere, contribuendo a rafforzare la già dominante cultura dello sfruttamento e della dittatura umana sul selvatico.
Nessuno degli animali che ci spacciano per felice nei bioparchi respirerà mai l’aria della libertà. Tanti non l’hanno mai conosciuta.
Sono tutti destinati a morire nei recinti a loro imposti ed esistono solo perché qualcun* paghi un biglietto per vederli e si nutra della loro bellezza senza entrarvi mai in empatia, perchè, se così fosse, nessuno li vorrebbe prigionieri.

Nei bioparchi NON “si capiscono e proteggono gli animali” (cfr *): un animale selvatico non si avvicinerebbe mai ad un umano per farsi accarezzare o per essere nutrito. Toccare un animale non vuol dire capirlo.
Toccare un animale vuol dire insegnare ai bambini e alle bambine che possono fare della natura ciò che vogliono, vuol dire semmai insegnare a chiunque il sentirsi legittimato a disporre di tutto e tutt*.
Annichilire il selvatico anzichè spronare a difendere la libertà della vita in generale e, nel caso specifico, degli habitat che già esistono fuori dai recinti dei bioparchi.

Contemporaneamente la cultura del dominio umano su tutto ciò che non lo è ha però creato la necessità di occuparsi degli animali liberati dallo sfruttamento.
E’ sorta nel tempo l’esigenza di luoghi in cui accoglierli: sono rifugi per animali sottratti alla produzione, ai macelli e/o a maltrattamenti.

Nessuno di loro ritroverà la libertà perduta o mai vissuta, ma non si fingerà che siano felici, come sarebbe loro diritto.
In molti di questi luoghi non si gioca con le parole, non si mistifica il linguaggio, non si lucra. Chi si reca nei rifugi incontra la vera storia di questi animali.
Luoghi che vorremmo non esistessero, perché vorremmo che ogni animale fosse libero di vivere, crescere, relazionarsi, morire, secondo i propri intrinseci istinti specifici.

(*) tutti i riferimenti virgolettati sono citazioni dal sito di ZOOM
http://www.zoomtorino.it/wp-content/uploads/2015/08/ZoomTorino-brochure-ITA.pdf

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DALLE (CINQUE) STELLE ALLE (TANTE) STALLE
strane storie di soldi, recinti e riqualificazione a Torino

Sicuramente dalle politiche di palazzo e dintorni, di qualsiasi colore o schieramento siano, non ci si può aspettare mai niente di buono, ovvio, ma la curiosità e comunque la necessità, talvolta, di sapere di che morte morire mi hanno spint* ad addentrarmi, qualche giorno fa, in alcuni comunicati stampa pubblicati dal comune.

Non mi ha stupito certamente questo in data 14/10/16
www.comune.torino.it/ucstampa/comunicati/article_575.shtml
con la consacrazione e la consegna, con forse alcuni accorgimenti e ritocchini qua e là, di un polmone di verde a Zoom e a tutto ciò che Zoom rappresenta e su cui, in più occasioni, nel blog Michelotti Libero e per le strade della città, c’è stata occasione di dire e di ribadire.
Già, come “non sentirsi” di buttar via un progetto simile e di tale “riqualificazione” ?
Pronti? Partenza, Via!

Scorrendo però alcuni comunicati in date precedenti qualcosa non mi torna, o meglio, è perfettamente in sintonia con il mio percepire l’istituzione, le sue politiche e le sue prese per i fondelli.
Date uno sguardo a questo in data 12/10/16
www.comune.torino.it/ucstampa/comunicati/article_568.shtml
Ohibò, ma il comune non era senza soldi e pertanto, suo malgrado (!), si trova costretto a riaprire lo zoo, no…bioparco, no…fattoria didattica,…no… ops… ora si parla anche di museo della biodiversità (!) ???
Ma guarda, guarda, qui ci dice di aver ricevuto dall’ unione europea ben quattromilionicentomila (4.100.000,00) euro che saranno impiegati in azioni legate all’innovazione sociale e alla riqualificazione ambientale…
go_freedom_go___farhad_foroutanianVi invito a leggere il suddetto comunicato perché al solo pensiero che si moltiplichino realtà sul filone dell’eco-borgo Campidoglio e si parli di tecnologia innovativa, posticcia, virtuale e di quant’altro di smart già si sta assaporando in questa city, traducendosi poi in controllo e virtualizzazione della vita, mi fa accapponar la pelle. Ancor di più quando il tutto viene farcito da partecipazione attiva, collaborazione, co-produzione, condivisione, inclusione, welfare, attività educative e culturali….living lab, wegonow, firstlife, co-city, urban innovation!
4.100.000,00 euro, ma non potevamo mica buttar via un progetto come quello di Zoom, sacrificando anche solo un cent per cotante meraviglie e tutte le sue magnifiche ricadute su questa città!

Mentre ci siete, non c’è il due senza il tre, e qui mi sono fermat* anche io perché tanto non c’è fondo al pozzo, scorrete anche questo, bada bene, datato 11/10/16 e soffermatevi al terzo capitoletto
www.comune.torino.it/ucstampa/comunicati/article_560.shtml
Parchi cittadini. La Giunta comunale ha approvato diversi disegni in linea tecnica per il riassetto di alcuni parchi cittadini. In particolare i progetti sono finalizzati alla sistemazione dei versanti collinari interessati da erosioni e al recupero di zone verdi in alcuni parchi pubblici collinari delle Circoscrizioni 7 e 8. Sono stati inoltre deliberati progetti – sempre in linea tecnica – per la riqualificazione progressiva di diversi giardini pubblici, in tutto il territorio cittadino.
E il Parco Michelotti? E’ in circoscrizione 8… o no?
Vicesindaco Guido Montanari: “Non sono mai entusiasta quando uno spazio pubblico non viene gestito dal pubblico, ma sull’area ci siamo trovati un progetto già in essere, che non ci sentiamo di buttar via. Lavoreremo però per migliorare la qualità degli spazi pubblici, accelerare i tempi burocratici e garantire che il profitto non vada contro gli interessi collettivi, seguendo un percorso concordato e partecipato”.

Partecipate gente, partecipate!

Nix, l’insofferente.

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ATTORNO E DENTRO AL PARCO MICHELOTTI INIZIANO AD ACCADERE COSE

e queste cose già raccontano molto di quella che è l’idea che regge l’interesse suscitato in istituzioni (Comune di Torino) e gruppi economici (Società Zoom) da questa striscia di verde, inselvatichitosi negli anni e rinchiuso in recinti.

Ritroviamo in rete la notizia di uno sgombero del parco a seguito di un tentativo di rave
Questi i link:
www.iltorinese.it/la-polizia-fa-pulizia-al-parco-michelotti-agenti-e-unita-cinofile-per-lo-sgombero-dellarea/
www.cronacaqui.it/torino/1644209263_salta-il-rave-party-torino-parco-michelotti-si-trasforma-in-disco-non-autorizzata-denunciati-in-15.html

quello che contaL’informazione non è riportata altrove, ma in fondo poco conta.
Quello che ci sembra rilevante non è tanto lo specifico evento, che rientra perfettamente nella successione delle cose che dovranno portare infine alla occupazione definitiva del parco come zoo: seguiranno certamente azioni simili o ancora più aggressive nei confronti dell’area e dei loro abitanti attuali, animali ed umani.

Lo scandalo inaccettabile che, piuttosto, vorremmo segnalare è ancora una volta la modalità di intervento e con essa le motivazioni ed il  senso che azioni come queste mostrano esplicitamente: la vita non ha valore, le scelte di dove stare (vivere, ballare, riposare, cinguettare, strisciare, pensare) non sono accettabili se non passano attraverso le regole convenzionali che qualcuno, altro da noi, ha stabilito.

Perciò il selvatico lo estirpiamo,
i senza dimora li scacciamo e poi racchiudiamo in spazi lontani e chiusi che possiamo non vedere,
gli animali non ci interessano se liberi e magari solo fuggevolmente visibili: li vogliamo esposti in gabbie pubbliche.

A tutto questo ci stiamo preparando con questo primo sgombero, con cui le potenti forze del disordine impiegate in questa fondamentale operazione di democratizzazione hanno vinto la battaglia contro il male e riconquistato lo spazio “pubblico”, riconsegnandolo ai cittadini che ne potranno godere per qualche giorno fino a quando si vedranno sottrarre la loro conquista da Zoom che con il placido benestare di tutta la giunta inizierà l’attività per trasformare il parco in uno zoo a pagamento!

Contro ogni fascismo, di ieri e di sempre

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IL PROGETTO PRESENTATO DA ZOOM PER L’UTILIZZO COME ZOO DEL PARCO MICHELOTTI È STATO APPROVATO DAL COMUNE DI TORINO.

liberi-e-selvaticiIn questi mesi abbiamo assistito ad una massiccia ed ancora una volta  illusoria propaganda elettorale con annessa possibilità che venisse rispedita al mittente l’offerta per l’assegnazione del Parco Michelotti, pervenuta da parte dell’unico partecipante alla gara: il  “Costituendo R.T.O. Zoom Torino S.p.a/Zoom in progress S.r.l.”

Eccoci, dopo un anno di via vai burocratici, a prendere atto del fatto che l’aggiudicazione definitiva è avvenuta.

Torino, volutamente trascurando la storia passata di zoo da cui il Parco Michelotti si è già emancipato un volta, avrà il suo nuovo zoo.

A trent’anni dalla chiusura del vecchio, per altri trent’anni richiuderà gabbie attorno agli animali, metterà  sbarre attorno ad uno spazio che non sarà pubblico ma privato e serrerà le porte ad ogni ipotesi di impostare una nuova idea di vita collettiva in funzione della libera circolazione di bipedi e altri animali, di vita spontanea, di parco pubblico.

Arrivano palate di soldi a Torino? Bene.
Torino sarà più ricca? In senso monetario forse e sarà tutto da vedere

Sicuramente la città avrà ceduto un altro suo pezzetto alla mercificazione della vita, per offrirsi a tutti coloro che stanchi e alienati non sanno dove approdare nel loro tempo “libero” se non in luoghi facili e comodi, dove assistere allo spettacolo di animali prigionieri, invece che liberi.

La città sarà quella dove potranno passeggiare  in fila per due bambini più addomesticati del cane che tengono al guinzaglio e educati alla avidità che imprigiona la vita, invece che alla curiosità che rispetta e gode della altrui libertà

Una città arricchita da gruppi di esseri umani di ogni età, lieti di pagare per l’ingresso in un “parco” che  dovrebbe essere aperto e liberato per sempre, dentro il quale si sarebbe potuto imparare ed insegnare la libertà ed il  rispetto verso se stessi e la vita di ognunx, umano e animale.

Segue l’estratto da
DETERMINAZIONE: PROCEDURA AD EVIDENZA PUBBLICA N. 56/2015 PER LA CONCESSIONE DI VALORIZZAZIONE DELLA PORZIONE DEL PARCO MICHELOTTI (…)
N. Cronologico 348 – approvata il 29 giugno 2016 – Direzione Edifici Municipali, Patrimonio e Verde

“Le risultanze del gruppo di lavoro sono state espresse in una relazione di sintesi finale conservata agli atti, con la quale si rappresenta che l’Offerta Progettuale dell’Aggiudicatario, così come integrata dalla Relazione Tecnico Progettuale, risulta rispondente all’esigenza espressa dalla Città con Deliberazione del Consiglio Comunale del 25 gennaio 2015 n. mecc. 201406021/059, di dotarsi di un polo permanente pluridisciplinare dai risvolti naturalistici, ludico, scientifici, didattici, destinato ai cittadini ed ai turisti, caratterizzato da significativa sostenibilità ambientale e rispettoso del rapporto con il fiume e con l’ambiente, che mantenga  e valorizzi gli aspetti storico-botanici-paesaggistici del luogo.”

LEGGI QUI TUTTO

 E certo non è adesso o in virtù di questo documento che finiamo di pensare e dire che il Parco Michelotti deve essere libero per essere liberi

Contro ogni fascismo, di ieri e di sempre

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foto-volantino-antispefaANTIFASCISMO E LIBERAZIONE ANIMALE

Non è quasi mai affare semplice far intendere quanto la liberazione animale e l’antifascismo, per noi, vadano saldamente a braccetto.

Nel senso stretto e uso comune del termine, la parola liberazione spesso gode esclusivamente di un pensiero e di una lotta antropocentrici, dove l’animale umano continua ad esser l’unico soggetto ad ambire a qualche forma di libertà. Ancor peggio, l’animale non umano, è sempre ed esclusivamente oggetto.

Sempre più tristemente, nel chaos mediatico e appiattente da social network e non solo, la liberazione animale è, tanto paradossalmente quanto realmente, coniugata a derive fasciste; nuove destre, vecchie destre, dichiarate o meno. Razzismo e animalismo, psichiatria e animalismo, omotransfobia e animalismo, sessismo e animalismo, fascismo e liberazione animale… ossimori sempre più assimilati e che confondono, strumentalmente o meno, liberazione con protezionismo, tutela della biodiversità, etc.

Nel populismo dilagante, spesso, la lotta per la liberazione animale, non manca di assumere toni di un fanatismo quasi religioso, quanto, di contro e di rigetto, di una rivendicazione pseudo machista di una libertà di poter e voler scegliere di cosa nutrirsi e di come utilizzare animali non umani, in nome di quella gerarchia “naturale” che dovrebbe, secondo alcunx, aver radici profonde e comunque immutabili nella storia più lontana.

E’ anche vero però, che nell’era attuale, cavalcata dalla green-economy, per alcunx riformistx ingurgitatx dal sistema capital-camaleontico, esser vegan è ormai uno stile di vita alternativo, spesso salutista e fine a se stesso.
Oggi così, domani chissà.

Liberazione animale e antifascismo, per noi, corrono su binari paralleli. Su quei binari che vedono una lotta al dominio, alle gerarchie, alle oppressioni e mercificazioni a 360°. Quei binari che si intersecano nelle lotte di liberazione, contro ogni gabbia e sfruttamento, tangibile o meno, e che minano alla vita e libertà di tuttx.

Ci vogliono allevati nella compassione e cresciuti nel nuovo concetto di “carne felice”.
Noi: allevamento animale, umano e non.

Se il non dimenticare cosa ha significato il fascismo storico nel nostro passato e lottare perchè non si ripresenti è quanto mai importante, è altrettanto importante riconoscere gli effetti di prevaricazioni costanti e non riconducibili esclusivamente ad un periodo storico, ad un’area geografica, ad un’etnia e ad una specie.

L’era della globalizzazione vede, su questo martoriato e sempre meno selvatico pianeta, l’erigersi di muri e barriere sempre più alti, confini sempre più marcati; sempre più recinzioni per tuttx, reali e virtuali. Vite e corpi, umani e non, che perdono il loro significato, la loro storia o la loro non-storia, in un conto arrotondato a più zeri, dove il numero uno, il singolo, non ha più valore. Macelli e carneficine.

Proprio qui, in san salvario, dove gentrification e fascisti cercano sempre più di prender terreno, sorgeranno a breve, presso l’ex scalo Vallino, nuovi stabulari oltre a quelli già esistenti nelle varie facoltà presenti sul territorio. Ancora pratiche di tortura e morte su vite senzienti in nome del progresso scientifico nel campo della genetica, bioingegneria, biomedicina e biotecnologia.

Pratiche legittimate dalla solita prospettiva di ripresa economica e occupazionale derivata dal nuovo incubatore e dal nuovo centro di medicina traslazionale e personalizzata che presto non mancherà di giocare anche il suo ruolo selettivo fra l’umano meritevole di cure e quello meno interessante scientificamente. Stabulari per animali non umani ai piani inferiori, letti per umani ai piani superiori.
Cavie, la differenza è solo nel consenso scritto.

La differenza è nell’esercizio del potere.

Contro ogni fascismo, di ieri e di sempre

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DISAGIO

6a00e54fcf7385883401bb07ed41d6970dQuando ho saputo che vogliono costruire un nuovo zoo – questa volta a Torino, al parco Michelotti – non ho pensato “ancora? ancora gli zoo?”. Non mi entusiasma proprio la retorica progressista che vede sparire le scorie di un passato preindustriale – i vecchi serragli, le vecchie fattorie – travolti da sistemi e relazioni più efficienti e più “civili”. In effetti, gli zoo si continuano a costruire; certo, si chiamano “bioparchi” e “fattorie didattiche”. Per carità, a volte ciò significa gabbie più larghe, migliori cure sanitarie, qualche attenzione in più: tutte cose che costituiranno, immagino, un piccolo miglioramento per chi trascorre la vita in gabbia. Per inciso, significa anche meno turbamenti fra chi li visita, gli zoo, meno critiche, meno dissenso (ma questa è un’altra storia). Ad ogni modo, al Michelotti questo vogliono fare: uno zoo “moderno”, per portare gli animali a contatto con l’infanzia.

Quello che mi è venuto in mente, stranamente, è un episodio di cui non ho mai parlato, che non c’entra con gli zoo, anche se – sarà un caso – il ricordo è affiorato ogni volta che si parlava di queste prigioni per animali, e adesso voglio ripercorrerlo.

Diversi anni fa feci un viaggio ad Amsterdam. C’ero stato diverse volte, quando ero più giovane. Amsterdam era per me il Van Gogh Museum, le biciclette e, soprattutto, la cannabis libera. Era felicemente destabilizzante farsi le canne in un posto in cui tutto ciò era legale, anche se questo modo di “abitare” la città diventava una modalità fastidiosa nel modo di fare di molt* giovani, soprattutto italian*. Non mi ero mai soffermato sul fatto che tante persone andassero a “visitare” anche il quartiere a luci rosse, e che sostanzialmente le attrattive fossero due: droghe leggere legali e prostituzione legale. Lo sapevo, naturalmente, ma non mi aveva mai sfiorato l’idea di associare questi due elementi. Non ero mai stato nella “zona rossa”, credo per mancanza di interesse e per un certo moralismo di cui non mi rendevo bene conto. In sostanza, non sapevo come fosse fatta né cosa vi accadesse davvero.

Quella volta io e la mia compagna eravamo ad Amsterdam con due amici (una coppia etero) che voleva andare a visitare il quartiere in questione, vedere uno strip-tease in un locale e fare un po’ di shopping. Nonostante la mia recalcitranza, ci trovammo ad accompagnarli fuori dal locale, per poi ingannare l’attesa della fine dello spettacolo facendo un giro per le strade. Credevo francamente che mi sarei annoiato e, magari, scandalizzato per qualche cosa in particolare. Invece, ne uscii molto turbato, e anche sorpreso. Anzitutto, dalle vetrine dei negozi appresi che la cannabis e il sesso – un sesso pensato perlopiù per i consumatori maschi etero – erano legati, eccome, almeno nelle intenzioni di chi si occupava del marketing. Si trattava di una medesima trasgressione, ma io non ne capivo il motivo. Addentrandoci nel quartiere, iniziammo a vedere l’attrattiva maggiore: le prostitute stavano all’interno di grandi vetrine che davano sulla strada, e da lì attiravano i clienti. Questo più o meno lo sapevo già, ed era già per me motivo di disagio in sé. Voglio dire: fornire prestazioni sessuali in cambio di denaro (solo anni dopo ho scoperto davvero che le sex workers hanno le loro opinioni su questo lavoro, e che per la maggior parte lo considerano un lavoro dignitoso tanto quanto altri, e che in genere sono le prime ad essere a favore della legalizzazione). E comunque non trovavo scandaloso che fosse legale e regolamentato; del resto, era per me un fenomeno censurabile, ma valeva sempre il principio della “riduzione del danno”, e il fatto che quelle che allora consideravo paternalisticamente le “vittime” fossero più tutelate sul piano giuridico o sanitario mi pareva pur sempre positivo (adesso mi sembra persino ovvio).

Probabilmente, la mia percezione di allora era influenzata da una visione disinformata della questione, e anche moralista, forse. Ora posso dire che il punto di vista che mi interessa maggiormente è quello delle dirette interessate, come è ovvio che sia, e cioè coloro che forniscono dei servizi sessuali (e non il corpo o “la propria intimità”: per quanto banale sia dirlo, comprendere la differenza fra questi due piani non può che facilitare la discussione) in cambio di denaro. Oggi mi rendo conto che, anche se il tema è complesso perché esistono persone che scelgono liberamente di fare questo mestiere, proprio come altre scelgono di farne altri, ed esistono persone che vi sono costrette, nonostante questo non può essere affrontato in modo diverso da tante altre questioni lavorative: se c’è costrizione il problema è nella costrizione, non nel fatto che ci sia in ballo “il sesso”; se la “libera scelta” è sempre relativa nell’economia di mercato, lo è per tutt*, compreso il sottoscritto che fa l’impiegato e francamente preferirebbe evitarselo; se la regolamentazione di un settore economico non è adeguata, soddisfacente o lesiva della dignità di chi lavora, lo sa chi ci lavora, appunto. Ed è paternalismo pretendere di decidere dall’esterno che cosa è accettabile e cosa non lo è, quali pratiche devono essere legalizzate e quali no.

Ad ogni modo, allora ero meno informato sulla prostituzione, ma non pensavo che “intorno” ci fosse quello che vedevo addentrandomi nel quartiere. Gli uomini che passavano sostavano davanti alle vetrine ammiccando, offendendo le donne all’interno, facendo loro il verso, scimmiottandole, battendo sui vetri, facendo gesti osceni con una libertà che mi metteva profondamente a disagio. Qualcuna di loro, da dentro, rispondeva di tanto in tanto con decisione, mandando via i più importuni, ma il clima generale era per me indefinibile. Credo di poterne rendere l’idea – l’idea di come mi sentivo io, più che altro – ricordando il fatto che camminavo a testa bassa. Forse mi vergognavo del semplice fatto di essere lì, o del fatto di essere un maschio biologico, o entrambe le cose. Si trattava di un clima di “libertà” che era evidentemente a un passo dalla violenza sessuale, mi sembrava la richiamasse costantemente, anche nei confronti delle turiste di passaggio, che in teoria condividevano lo stesso status di voyeur, e che invece erano sottoposte a sguardi insistenti e sfacciati, battutine, volgarità. Tutto questo mi fece pensare agli animali, e precisamente allo zoo. C’erano delle persone dietro dei vetri, esposte completamente a uno sguardo che si sentiva libero di osservare senza essere osservato, di violare l’intimità senza dover entrare in relazione. Per me quello era uno zoo.

So bene che gli animali, nello zoo, non ci vanno per loro volontà, che non vengono pagati, e che non hanno alcuna forma di tutela, di cui invece immagino godessero quelle donne. E so anche che quelle donne sono in grado di farsi valere, di organizzarsi, di opporre resistenza (ora, a distanza di anni, penso che in qualche modo, però, lo facciano anche i prigionieri degli zoo). Ma era come se tanti turisti fossero venuti lì, apposta, a pagare il biglietto per vedere degli animali, per schernirli e godere della loro reclusione. Come se nel fare questo si sentissero più liberi, come se fossero spronati a godere della forma di potere che si esprime nel guardare un corpo senza che questo possa sottrarsi allo sguardo, come se tutto ciò generasse nuova violenza al di fuori delle gabbie. Potrebbe sembrare, questo, un argomento contro la legalizzazione del sesso a pagamento, ma non credo possa esserlo. Il clima che ho vissuto non deriva dalla legalizzazione – che peraltro impedisce forme di violenza più pesanti sulle donne, un’altra differenza rispetto ai giardini zoologici – ma dalla mercificazione, dalla riduzione di persone a cose. La reificazione e la mercificazione riguardano la prostituzione illegale tanto quanto (se non di più) quella legale, e non sono connaturate alla prostituzione, non inevitabilmente insomma.

Quel clima deriva comunque anche da un dispositivo preciso, che è la vetrina, una scena allestita per predeterminare chi guarderà e chi sarà guardata. Per quello, credo, ero nauseato. E, da animalista, avevo una parola semplice per dare forma a questa nausea: “zoo”, appunto. Da quando, tanti anni prima, avevo deciso di non andare allo zoo, quello era il primo che mi era capitato di visitare, e spero che sarà l’ultimo. Certo, quella modalità di guardare delle donne in vetrina non potrà cessare vietando la prostituzione (come ho detto deriva più dalla mercificazione che dalla prostituzione), mentre gli zoo potrebbero “semplicemente” essere aboliti. Quelle donne hanno scelto quel lavoro, e se alcuni aspetti non saranno per loro accettabili lotteranno per eliminarli, e io, dal canto mio, posso scegliere di non andare in quel quartiere, dove uno sguardo diverso mi sembra non essere possibile. Però il modo in cui mi sono sentito in quelle stradine vorrei ricordarmelo quando penso agli zoo.

E’ triste dirlo, ma forse il disagio che ho provato quella volta, il disagio che si prova a vedere lo sguardo spento di una “bestia” in una gabbia, va coltivato. O almeno, io non vorrei perdere il contatto con questo sentimento. Non so se e quando arriverà un giorno in cui riusciremo a guardarci fra animali, bambin* e puttane senza che nessun* abbassi la testa, né per timore, né per vergogna. Ma intanto, che cosa potrebbe accadere se fosse una comunità del disagio a dare solidarietà attiva agli animali? Una comunità di persone che scelgono di abbassare la testa, di non guardare chi non può restituire lo sguardo?

Marco Reggio

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Breve storia di due follie

nietzsche-hugging-a-horseTorino, Piazza Carlo Alberto, 3 gennaio 1889: un uomo, di fronte allo strazio di un cavallo frustato furiosamente da un vetturino, di fronte al suo sguardo implorante e disorientato, lo abbraccia, piange, diventa folle.

Torino, Piazza Palazzo di Città, 20 gennaio 2015: un burocrate, insensibile allo strazio di una città frustata dalla crisi e dall’abbandono, insensibile al suo sentire disorientato e disperante, abbraccia, sorridendo soddisfatto, una proposta folle.

In mezzo, tra le altre cose – l’immigrazione interna e transnazionale, le lotte operaie, l’outsourcing della FIAT –, l’apertura, il 20 ottobre 1955, e la chiusura, il 31 marzo 1987, di uno zoo. Le sue tracce nelle immagini sfarfallanti dei primi video amatoriali: una giraffa che allunga il collo e un elefante che tende la proboscide per prendere qualcosa da mangiare, degli orsi in bilico su del ghiaccio posticcio immerso in una specie di pozzanghera, delle scimmie che corrono su e giù da finti alberi di corda e d’acciaio, dei felini annoiati e immobili che si alzano solo per girare intorno a se stessi, avanti indietro, come la pantera di Rilke. Ma sempre con grazia, con una delicatezza che sbalordisce, con la capacità di perdonare l’imperdonabile. E sbarre ovunque e ovunque cemento.

E poi al posto dello zoo un bioparco. Un bel nome per dire la stessa cosa, lo stesso degrado del vivente a oggetto di oscena pornografia, la stessa noia, la stessa rabbia, la stessa grazia, delicatezza e capacità di perdono degli uni, la stessa protervia e arroganza degli altri animali. Lo stesso panottico, solo più fintamente gentile, lento, felice. In realtà, la stessa memoria ferita, in futuro; certo, questa volta da immagini ad alta risoluzione, in 3D, con colori precisi, da diffondersi con orgoglio sui social network. Le sbarre, però, più lontane, più difficili da scorgere, anche con gli zoom più potenti, più infide quindi; meno criticabili, se non da fanatici ed estremisti della libertà, perché rese invisibili o quasi. E, ovviamente, niente cemento questa volta! Erba, magari di plastica, ma erba comunque, Signori e Signore, bambine e bambini! Venghino, venghino!

Il burocrate sono in tanti e non han nome: son nati sani, mettono sulle zolle le mani e sperano di educare folle di bambini al pianto della reclusione, insegnando loro a pregare gli idoli della forza, dello sfruttamento, del dominio.

L’uomo del cavallo, invece, ha firmato il suo dolore, con un gesto estremo e con tanti nomi, tra cui anche quello di Friedrich Nietzsche. È nato folle, ha aperto le zolle, ha scatenato tempesta. E piange sempre la sera. Forse è la sua preghiera.

Oltre la specie

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SAI COSA SUCCEDE AL PARCO MICHELOTTI ?

All’asta pubblica indetta dal comune di Torino per l’assegnazione in concessione trentennale dell’area dell’ex zoo nel Parco Michelotti (sponda destra del fiume Po, zona gran madre) ha partecipato, guarda, guarda…
un unico candid01entertainment27ato: la società ZOOM Torino spa, già proprietaria dello zoo di Cumiana. Un caso? Anche no!

Al settimo cielo gli assessori, che finalmente, con questa mossa, ridaranno lustro ad un parco nel centro città che, sempre guarda il caso, è diventato un peso inutile e insostenibile per la sempre più indebitata e smart Torino.
Al settimo cielo anche la dirigenza Zoom che espanderà così ulteriormente il suo dominio.

Il progetto di ZOOM (soggetto addetto alla ristorazione già noto aver aperto nel 2009, a qualche decina di kilometri da torino, uno zoo spacciandolo per – usando terminologia trendy in puro stile greenwashing – bioparco “immersivo” per il benessere animale) prevede una fattoria urbana – city farm – in cui saranno detenuti animali considerati “da reddito” e non mancheranno gabbie per rettili e farfalle, vendendo la loro esibizione galeotta, tra un panino, una bibita, un pasto completo, forse anche il pernottamento o un pacchetto week-end all inclusive, per attività naturalistiche e didattiche.
Un bando cucito addosso ad un progetto, un progetto cucito addosso ad un bando.

Lo zoo di Torino, nell’area del parco Michelotti, è stato chiuso nel 1987, dopo 32 anni di attività a fini di lucro basata sullo sfruttamento animale.

Il Parco Michelotti è un parco pubblico, da mesi chiuso a chiave e ultimata la farsa delle verifiche del proge
tto da parte del comune, quando Zoom avrà a pieno titolo la gestione (trentennale!), solo una minima parte sarà a disposizione gratuita di tutt*.
Il resto sarà solo sfruttamento e speculazione.

michelotti_volantino_Pagina_2Quelle sbarre, quei recinti e quei muri rinchiuderanno presto nuov* prigionier* che con la loro esibizione serviranno a giustificare, legittimare e pubblicizzarne altr*, quell* di tutti gli altri allevamenti, che siano ipocritamente felici o terribilmente industriali.
E poi che dire…una “casa” per le farfalle?!? E rettili in ambienti posticci di cui Zoom è veramente maestro nella riproduzione. Un maestro del marketing e dell’inganno, per i tanti animali umani addomesticati alla gabbia.
Un maestro dell’affare, sulla pelle di chiunque.

In un mondo regolato dall’arte mistificatoria del marketing, gli esempi si sprecano: dove le guerre sono missioni di pace, i centri di detenzione-lager per migranti sono CPT, poi CIE e ora HOT SPOT, dove i manicomi criminali diventano OPG e ora REMS, dove gli zoo vengono chiusi e riaperti come BIOPARCHI e CITY FARMS …
dove ogni crudeltà e logica di dominio cambia nome ma non sostanza.

Parco Michelotti libero. Tutti e tutte liber* di entrare e… di uscire.

info per questa e prossime iniziative:
michelottiliberato@autistici.org

p.s.
fai girare!