DISAGIO

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Quando ho saputo che vogliono costruire un nuovo zoo – questa volta a Torino, al parco Michelotti – non ho pensato “ancora? ancora gli zoo?”. Non mi entusiasma proprio la retorica progressista che vede sparire le scorie di un passato preindustriale – i vecchi serragli, le vecchie fattorie – travolti da sistemi e relazioni più efficienti e più “civili”. In effetti, gli zoo si continuano a costruire; certo, si chiamano “bioparchi” e “fattorie didattiche”. Per carità, a volte ciò significa gabbie più larghe, migliori cure sanitarie, qualche attenzione in più: tutte cose che costituiranno, immagino, un piccolo miglioramento per chi trascorre la vita in gabbia. Per inciso, significa anche meno turbamenti fra chi li visita, gli zoo, meno critiche, meno dissenso (ma questa è un’altra storia). Ad ogni modo, al Michelotti questo vogliono fare: uno zoo “moderno”, per portare gli animali a contatto con l’infanzia.

Quello che mi è venuto in mente, stranamente, è un episodio di cui non ho mai parlato, che non c’entra con gli zoo, anche se – sarà un caso – il ricordo è affiorato ogni volta che si parlava di queste prigioni per animali, e adesso voglio ripercorrerlo.

Diversi anni fa feci un viaggio ad Amsterdam. C’ero stato diverse volte, quando ero più giovane. Amsterdam era per me il Van Gogh Museum, le biciclette e, soprattutto, la cannabis libera. Era felicemente destabilizzante farsi le canne in un posto in cui tutto ciò era legale, anche se questo modo di “abitare” la città diventava una modalità fastidiosa nel modo di fare di molt* giovani, soprattutto italian*. Non mi ero mai soffermato sul fatto che tante persone andassero a “visitare” anche il quartiere a luci rosse, e che sostanzialmente le attrattive fossero due: droghe leggere legali e prostituzione legale. Lo sapevo, naturalmente, ma non mi aveva mai sfiorato l’idea di associare questi due elementi. Non ero mai stato nella “zona rossa”, credo per mancanza di interesse e per un certo moralismo di cui non mi rendevo bene conto. In sostanza, non sapevo come fosse fatta né cosa vi accadesse davvero.

Quella volta io e la mia compagna eravamo ad Amsterdam con due amici (una coppia etero) che voleva andare a visitare il quartiere in questione, vedere uno strip-tease in un locale e fare un po’ di shopping. Nonostante la mia recalcitranza, ci trovammo ad accompagnarli fuori dal locale, per poi ingannare l’attesa della fine dello spettacolo facendo un giro per le strade. Credevo francamente che mi sarei annoiato e, magari, scandalizzato per qualche cosa in particolare. Invece, ne uscii molto turbato, e anche sorpreso. Anzitutto, dalle vetrine dei negozi appresi che la cannabis e il sesso – un sesso pensato perlopiù per i consumatori maschi etero – erano legati, eccome, almeno nelle intenzioni di chi si occupava del marketing. Si trattava di una medesima trasgressione, ma io non ne capivo il motivo. Addentrandoci nel quartiere, iniziammo a vedere l’attrattiva maggiore: le prostitute stavano all’interno di grandi vetrine che davano sulla strada, e da lì attiravano i clienti. Questo più o meno lo sapevo già, ed era già per me motivo di disagio in sé. Voglio dire: fornire prestazioni sessuali in cambio di denaro (solo anni dopo ho scoperto davvero che le sex workers hanno le loro opinioni su questo lavoro, e che per la maggior parte lo considerano un lavoro dignitoso tanto quanto altri, e che in genere sono le prime ad essere a favore della legalizzazione). E comunque non trovavo scandaloso che fosse legale e regolamentato; del resto, era per me un fenomeno censurabile, ma valeva sempre il principio della “riduzione del danno”, e il fatto che quelle che allora consideravo paternalisticamente le “vittime” fossero più tutelate sul piano giuridico o sanitario mi pareva pur sempre positivo (adesso mi sembra persino ovvio).

Probabilmente, la mia percezione di allora era influenzata da una visione disinformata della questione, e anche moralista, forse. Ora posso dire che il punto di vista che mi interessa maggiormente è quello delle dirette interessate, come è ovvio che sia, e cioè coloro che forniscono dei servizi sessuali (e non il corpo o “la propria intimità”: per quanto banale sia dirlo, comprendere la differenza fra questi due piani non può che facilitare la discussione) in cambio di denaro. Oggi mi rendo conto che, anche se il tema è complesso perché esistono persone che scelgono liberamente di fare questo mestiere, proprio come altre scelgono di farne altri, ed esistono persone che vi sono costrette, nonostante questo non può essere affrontato in modo diverso da tante altre questioni lavorative: se c’è costrizione il problema è nella costrizione, non nel fatto che ci sia in ballo “il sesso”; se la “libera scelta” è sempre relativa nell’economia di mercato, lo è per tutt*, compreso il sottoscritto che fa l’impiegato e francamente preferirebbe evitarselo; se la regolamentazione di un settore economico non è adeguata, soddisfacente o lesiva della dignità di chi lavora, lo sa chi ci lavora, appunto. Ed è paternalismo pretendere di decidere dall’esterno che cosa è accettabile e cosa non lo è, quali pratiche devono essere legalizzate e quali no.

Ad ogni modo, allora ero meno informato sulla prostituzione, ma non pensavo che “intorno” ci fosse quello che vedevo addentrandomi nel quartiere. Gli uomini che passavano sostavano davanti alle vetrine ammiccando, offendendo le donne all’interno, facendo loro il verso, scimmiottandole, battendo sui vetri, facendo gesti osceni con una libertà che mi metteva profondamente a disagio. Qualcuna di loro, da dentro, rispondeva di tanto in tanto con decisione, mandando via i più importuni, ma il clima generale era per me indefinibile. Credo di poterne rendere l’idea – l’idea di come mi sentivo io, più che altro – ricordando il fatto che camminavo a testa bassa. Forse mi vergognavo del semplice fatto di essere lì, o del fatto di essere un maschio biologico, o entrambe le cose. Si trattava di un clima di “libertà” che era evidentemente a un passo dalla violenza sessuale, mi sembrava la richiamasse costantemente, anche nei confronti delle turiste di passaggio, che in teoria condividevano lo stesso status di voyeur, e che invece erano sottoposte a sguardi insistenti e sfacciati, battutine, volgarità. Tutto questo mi fece pensare agli animali, e precisamente allo zoo. C’erano delle persone dietro dei vetri, esposte completamente a uno sguardo che si sentiva libero di osservare senza essere osservato, di violare l’intimità senza dover entrare in relazione. Per me quello era uno zoo.

So bene che gli animali, nello zoo, non ci vanno per loro volontà, che non vengono pagati, e che non hanno alcuna forma di tutela, di cui invece immagino godessero quelle donne. E so anche che quelle donne sono in grado di farsi valere, di organizzarsi, di opporre resistenza (ora, a distanza di anni, penso che in qualche modo, però, lo facciano anche i prigionieri degli zoo). Ma era come se tanti turisti fossero venuti lì, apposta, a pagare il biglietto per vedere degli animali, per schernirli e godere della loro reclusione. Come se nel fare questo si sentissero più liberi, come se fossero spronati a godere della forma di potere che si esprime nel guardare un corpo senza che questo possa sottrarsi allo sguardo, come se tutto ciò generasse nuova violenza al di fuori delle gabbie. Potrebbe sembrare, questo, un argomento contro la legalizzazione del sesso a pagamento, ma non credo possa esserlo. Il clima che ho vissuto non deriva dalla legalizzazione – che peraltro impedisce forme di violenza più pesanti sulle donne, un’altra differenza rispetto ai giardini zoologici – ma dalla mercificazione, dalla riduzione di persone a cose. La reificazione e la mercificazione riguardano la prostituzione illegale tanto quanto (se non di più) quella legale, e non sono connaturate alla prostituzione, non inevitabilmente insomma.

Quel clima deriva comunque anche da un dispositivo preciso, che è la vetrina, una scena allestita per predeterminare chi guarderà e chi sarà guardata. Per quello, credo, ero nauseato. E, da animalista, avevo una parola semplice per dare forma a questa nausea: “zoo”, appunto. Da quando, tanti anni prima, avevo deciso di non andare allo zoo, quello era il primo che mi era capitato di visitare, e spero che sarà l’ultimo. Certo, quella modalità di guardare delle donne in vetrina non potrà cessare vietando la prostituzione (come ho detto deriva più dalla mercificazione che dalla prostituzione), mentre gli zoo potrebbero “semplicemente” essere aboliti. Quelle donne hanno scelto quel lavoro, e se alcuni aspetti non saranno per loro accettabili lotteranno per eliminarli, e io, dal canto mio, posso scegliere di non andare in quel quartiere, dove uno sguardo diverso mi sembra non essere possibile. Però il modo in cui mi sono sentito in quelle stradine vorrei ricordarmelo quando penso agli zoo.

E’ triste dirlo, ma forse il disagio che ho provato quella volta, il disagio che si prova a vedere lo sguardo spento di una “bestia” in una gabbia, va coltivato. O almeno, io non vorrei perdere il contatto con questo sentimento. Non so se e quando arriverà un giorno in cui riusciremo a guardarci fra animali, bambin* e puttane senza che nessun* abbassi la testa, né per timore, né per vergogna. Ma intanto, che cosa potrebbe accadere se fosse una comunità del disagio a dare solidarietà attiva agli animali? Una comunità di persone che scelgono di abbassare la testa, di non guardare chi non può restituire lo sguardo?

Marco Reggio